Zanetti recide la tela e ne crea lirica

Le sue visioni sono astrazioni del reale, dei poemetti notturni che prendono vita in un contesto in cui il colore predomina, creando geometrie astrali il cui fascino è quello di alludere senza costrizioni ulteriori, una suggestione perpetua di simbologie informali eppure in sé del tutto allegoriche.

Zanetti insegna il concetto di fuga e di perdita, tramite un sapiente uso della cornice, rimodulata secondo sua volontà; gestisce lo sguardo di chi legge l’opera conducendolo in luoghi di confine dai contorni distorti, dimensioni che vivono dentro la tela e fuggono spietate nelle grazie del mondo reale, confondendosi tra noi.

Una chiara allegoria dell’anima che, oppressa dalle pulsioni di una carne effimera, si avvicina al misticismo del silenzio e del ritiro.

Le sue tele custodiscono la stessa potenza vibrante di un cielo che si prepara ad accogliere la tempesta, si percepisce un’irrequietudine dolce, alcune zone del dipinto sono violate da degli squarci improvvisi di colore che recidono le armonie nel frattempo createsi; ci vuole preparare all’incidente, a ciò che cade nel quotidiano e lo turba, ciò che sa esplodere e far tribolare.

Sono segni che l’artista introduce con una precisione maniacale, quasi a voler tessere una consapevole trama.

Zanetti può essere considerato uno scultore atipico. La sua indole è incline a giocare con la materia, nello specifico i colori, che sa manipolare guidato da un intuito fulmineo.

Dipinge di notte e le sue tele lo raccontano, strati e strati di passaggi e tragitti che percorre con spatolate di vernice potenti, virili, di sicuro non buone.

È chiaro il suo intento di trovare qualcosa in quell’Altrove che sta prendendo forma, un Altrove caotico, impalpabile che, tuttavia, i suoi occhi riescono a tradurre in significato. Le mani corrono veloci, costruiscono piccole architetture oniriche alla ricerca di un senso che porrà fine all’Opera. Quando l’artista riguarda un suo dipinto ne conferma la completezza, poiché rinviene quella nota tragica che eleva, quel disturbo imprevedibile che prepara, quell’incidente terrificante che, se superato, divinizza.

Tele come sculture, tele come poemetti

In questi dipinti, che racchiudono tutto il sapore malinconico delle rose, accadono magie, i colori si rincorrono e le dimensioni si confondono; sono, in realtà, dei poemetti interpretabili attraverso i sensi, tramite una forma di raziocinio avanzato e fantasmagorico, data la pluralità di elementi che si susseguono e alternano con rapida e capricciosa vivacità.

Intuisco violenza, intuisco amore per il rischio, alcune tele sono graffiate in un crescendo di sofferenza, tramite lamette appuntite, in un crescendo di aggressione; eppure in questo delirio creativo e infuocato Zanetti crea un dipinto che vive e respira, una dialettica con l’inconscio che prescinde dalle umane categorie, poiché l’artista è poeta e sa, dunque, come far fluire la vita nella morte, il sangue nel colore. È un rivoluzionario che soffre di una forma di inquietudine che solo ora si sta vestendo dei toni più caldi, dell’arancione e del giallo.

Il tempo per questo creativo scultore della tela è cosa superata, la dimensione dello spazio è elegante illusione, ci costringe alla distruzione delle categorie della fisica contemporanea, un sacrificio dovuto, un volo nel vuoto che esso solo può permettere di risorgere immersi in verità nuove.

Davanti ad una sua opera, spesso estesa in lunghezza e larghezza, non ci si può sedere, si deve stare ritti in piedi, come in un perenne stato di allerta, non concede tregua. Al contrario, costringe a camminarci attorno, prima da vicino e poi da lontano, per poter coglierne i giochi nascosti, i giardini inesplorati, quelle porzioni di cielo che tuonano e, infine, quel dettaglio di tragedia che divinizza.

Si tratta, di certo, di un pittore informale che, tuttavia, sa farsi interpretare e cogliere. Non cade vittima di quelle pericolose tendenze egoiche nelle quali la volontà di stupire prende il sopravvento sulla volontà di meravigliare.

Nei suoi poemetti pittorici si nota, seppure in lontananza, una qualche inclinazione all’espressionismo spirituale di Emil Nolde, in quelle parti in cui raffigura sezioni naturali dai contorni sfumati e nuvolari. La grande virtù dell’artista è, in effetti, quella di essere difficilmente inquadrabile entro correnti precostituite.

Coglie tutta quell’inquietudine soffusa della poesia di Pessoa che riporta nelle porzioni di tela dove la luce concede spazio all’ombra, all’altro da sé, al mondo onirico.

Interpreta la paura e l’incubo con una potenza creativa vicina ai canoni di Goya e delle sue “pitture nere”, svestendosi però del peso delle forme, rievocandole soltanto, tramite un uso accorto del colore.

Zanetti è questo e molto più: una foresta fitta e appuntita, vista dall’alto, una foresta che pare un tempio di agili colonne, un luogo antico che ha per finestra dei cieli graffiati.

Ci si chiede quale sia l’intenzione più profonda dell’artista, dove voglia infine condurci la sua opera, ci si chiede se in realtà quello che crea non si tratti di un semplice gioco allegro o se, invece, siano delle tragedie iperrealistiche in cui ognuno di noi può rispecchiarvisi.

Sono interrogativi a cui non va data risposta, poiché è nel dubbio, in questo perpetuo stato di sospensione, che Zanetti vuole metterci alla prova; quel che ci regala è un conoscere noi stessi tramite  le sue opere che ci percorrono come fossero nuvole sottili, come fossero semplici ombre coloratissime e ariose che si infilano sotto la nostra pelle, i nostri occhi, dentro le nostre mani e ci attraversano fluide per donarci intuiti altrimenti inarrivabili, per indicarci tutto ciò di inconscio e svelato che custodiamo quando il nostro lato umano prende il sopravvento su quello divino.

Pittura dell’azione

Massimo Zanetti

Zanetti non è un pittore buono, è un pittore giusto.

Non vuole farsi amare né comprendere, vuole attraversare, il che implica un sacrificio di vita, una sofferenza animica, notti malinconiche dove, in lontananza, si percepiscono voci gentili, qualche sussulto di allegria o qualche vivace ricordo d’infanzia.

Il gesto che sceglie per imprimersi all’interno della tela non è cosa semplice. Necessita forza e rapidità, richiede una potenza vulcanica oltre che una grande sfida col tempo che affievolirebbe altrimenti il colore, se non immediatamente steso e lavorato.

È  senza ombra di dubbio un pittore dell’azione e della sintesi, come solo un poeta saprebbe esserlo. Ancora non è dato sapere del suo futuro, di sicuro la grammatica dei colori continuerà a dar vita a poemetti notturni, e la sua malinconia scenderà lenta tra una goccia e l’altra di colore; ciò che è certo, però, è che quanto fino ad ora ha voluto raccontarci è tutto vero.

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