Tancredi Parmeggiani e il suo tratto eroico

Trovo che parlare di uno sconosciuto, reso a me noto esclusivamente tramite la tela, sia un esercizio di immaginazione che può sconfinare nell’arroganza.

Di certo i biografi sapranno meglio di me narrare la vita di Tancredi Parmeggiani, perlomeno la vita diurna, quella dell’uomo, della sua carne.

Ognuno di noi è parte del consorzio umano ed in quanto tale lascia dei segni del suo passaggio che sono descrivibili e riscontrabili.

Quello che però mi sono ripromessa di compiere nella stesura di questo ritrattato emotivo-spirituale dell’artista è una linea d’ombra, un “leggere nel vuoto”, un inseguire tra la fitta nebbia i passi di Tancredi. La nebbia qui a Venezia è densa delle preghiere che ogni mattina i fedeli dedicano al vento, entrando coi piedi nelle chiese che si ergono tra un campo e l’altro. Io lo sento che l’aria qui, dal posto in cui scrivo, è un’aria buona.

Per incontrare Tancredi ho letto alcuni dei suoi pensieri, scritti di suo pugno, raccolti da Marisa Dalai Emiliani:

“Vorrei dipendere ad ogni ora, ad ogni sensazione, ad ogni idea, ad ogni rivelazione nuova che sussegue ormai naturalmente, turbinosamente, dolcemente, in questa curiosa natura così tormentata e che, pertanto, ritengo profondamente equilibrata”;

“Mi interessa fare dell’arte facendo della pittura, ma non mi interessa fare dell’arte senza fare della pittura, perché amo dipingere. Amo le cose rare, fare della pittura è raro ed è ancora più raro fare della buona pittura …distruggere la pittura oltre che impossibile sarebbe stupido, perché sarebbe come distruggere l’individualità e ciò è la stessa cosa che distruggere l’uomo”;

Io, la sola cosa che posso fare, è dipingere”.

La critica della sintesi pittorica di Tancredi Parmeggiani è bene che la faccia chi è critico, io non voglio frapporre fra me e Tancredi il mio ego.

Non voglio definire le sue opere.

Penso che sia un errore, almeno quanto chi definisce, tramite la prosa razionale, un intuito colto da un poemetto, da una poesia, da uno spirito notturno.

Quello che in questo luogo di ritiro mi sento di poter compiere è una nuotata in fresche e limpide acque in compagnia di un’anima troppo lucida e vivida per poter sorreggere il peso di questo mondo terreno, dei suoi compromessi, dei suoi vizi.

Tancredi Parmeggiani: uno spirito che ha dialogato col silenzio

Tancredi ha abitato per anni in un angusto localino a Venezia, concessogli da Peggy, sua amante.

Lui però amava forse la figlia di Peggy, questo si intuisce. Figlia che la madre, presa da vanità umana, chiamo Pegeen, riprendendo la radice del suo nome come per imprimere un pezzo di sé anche nella vita e carne della figlia. Questo dice molto della mecenate americana.

Una vita quella di Tancredi fatta di traiettorie esplosive, trame intense e contratte. Incontri con Vedova, Luciano Gaspari e Gino Morandi esposizioni a Parigi, Roma, Milano, New York.

Sa disegnare sin da adolescente, i suoi ritratti sono psicologici, languidi, la declinazione dei contorni dei volti parla delle anime che fissa sulla tela.

Nel 1962 gli diagnosticano, dopo una grave crisi nervosa e un ricovero in Villa Tigli di Monza, la schizofrenia paranoide.

Nasce suo figlio, poco dopo, Alessandro, nel 1963. Nel 1964, all’alba del 27 settembre, a soli 37 anni, Tancredi Parmeggiani si toglie la vita, gettandosi nel Tevere. Il suo corpo venne ritrovato il 1° ottobre.

Uno spirito che ha dialogato col silenzio. Ha attraversato il colore, privandolo delle forme. Si è lasciato percorrere dalla paura per, infine, abbracciare la stretta eterna del nero, il fluire vorticoso delle onde del Tevere, allontanandosi con un gesto eroico dalla carne miserabile, dai vizi dell’”uomo piccolo”. Aveva troppo dato. Aveva troppo assorbito. Voleva pulirsi. 

Lui è l’artista, quello che se ne è volato via all’alba, tra un sospiro e l’altro. Rara divinità assorta, tormento dolce. Tancredi.

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